Nato a Volterra da Antonio di Iacopo Inghirami e da Antonia di Nanni Lisci, fu scrittore ed abbreviatore apostolico alla corte papale oltre che segretario e cubicolario di papa Sisto IV. Suo fratello Paolo detto “Pecorino” perse la vita nel 1472 nei tumulti connessi alla contesa per la gestione dell’allumiera del Sasso. Era vivente nel 1474.
Paolo detto “Pecorino” INGHIRAMI (???-1472)
Nato a Volterra da Antonio di Iacopo Inghirami e da Antonia di Nanni Lisci, lega il suo nome all’appalto dell’allumiera del Sasso che nel 1472 riuscì ad aggiudicarsi in società col concittadino Benedetto Riccobaldi, coi fratelli senesi Benuccio, Andrea, Conte e Salimbene Capacci e coi fiorentini Gino Capponi e Antonio Giugni. La possibilità che l’allumiera venisse locata a questo gruppo di soci aveva provocato tuttavia le vibrate proteste del Comune di Volterra che si riteneva danneggiato da un canone di affitto ritenuto decisamente esiguo in rapporto alla ricchezza del giacimento e che quindi considerava compromesso l’interesse della Comunità. La disputa tra le parti raggiunse allora toni talmente aspri (i primi di giugno del 1471 un gruppo di cittadini volterrani guidato da ser Francesco Contugi, ser Francesco Buonamici e Niccolò Broccardi giunse addirittura ad occupare il sito della cava suscitando la pronta reazione giudiziaria del capitano fiorentino Ristoro Serristori), che il Consiglio generale di Volterra nominò arbitro Lorenzo de’ Medici, il quale, confermando la locazione dell’allumiera al gruppo dei soci (di cui appunto faceva parte il Pecorino) provocò l’aperta rivolta della popolazione volterrana. Gli stretti legami di amicizia allora esistenti fra l’Inghirami e i Medici risalivano all’inizio del 1450 allorché Giovanni di Cosimo de’ Medici aveva soggiornato a Volterra dove era stato ospite del suo precettore, il volterrano Giovanni Caffarecci, che lo aveva accolto nel proprio palazzo in Piazza S. Michele. E che si trattasse di una salda amicizia è testimoniato, ad esempio, da una lettera in cui il Pecorino raccomandava a Giovanni de’ Medici il suo parente ser Ludovico di Gentile Guidi per un incarico nell’Arte della Lana. D’altra parte questa fedeltà ai Medici aveva procurato allo stesso Paolo concreti vantaggi e posizioni di rilevo nella vita pubblica: già tra i riformatori aggiunti dello statuto nel 1464 e tra i Priori nel medesimo anno (carica che egli aveva già ricoperto nel 1452, nel 1455 e nel 1457), negli anni 1466-67 fu impiegato in diverse ambascerie a Firenze che lo videro a diretto contatto con Piero o con Lorenzo de’ Medici. Proprio per i suoi compiti di prestigio e per le sue collusioni fiorentine fu così che egli si trovò infine a svolgere il ruolo di fideiussore nel contratto di locazione dell’allumiera del Sasso al senese Benuccio Capacci attirandosi con ciò il grave sospetto di aver sollecitato per primo la partecipazione privata del Magnifico in quell’attività estrattiva, essendo sempre stati infatti gli Inghirami, per loro parte, completamente e tradizionalmente estranei ad ogni attività di sfruttamento minerario. Inviato pertanto alla fine del 1470 presso la Signoria di Firenze dai Priori volterrani per cercare di trovare una mediazione alle fortissime tensioni suscitate in Volterra dall’approvazione di quel contratto, egli vi si trattenne circa un anno confermando così ulteriormente il proprio ruolo filomediceo e consolidando contemporaneamente il proprio prestigio presso i sovrani. Ad aggravare la sua posizione nei confronti dei rivoltosi volterrani dovette inoltre contribuire anche il suo carattere: lo storico L. Falconcini, ad esempio, lo definì “seditiosus, iniquus atque superbus” rintracciando in questi tratti della sua personalità addirittura il principale motivo di opposizione dei volterrani alla sua partecipazione all’impresa mineraria del Sasso. Accadde allora che il Pecorino, uomo che le cronache definiscono sprezzante e altero, sentendosi forte del giudizio arbitrale a suo favore, il 21 febbraio 1472 rientrò in Volterra con una schiera di armati. il gesto fu interpretato come una chiara provocazione da parte dei Volterrani che insorsero e Paolo fu immediatamente assalito dalla popolazione inferocita che individuava in lui e nei suoi sodali volterrani dei veri e propri traditori. L’intervento del capitano fiorentino Bernardo Corbinelli non riuscì tuttavia a scongiurare la tragedia; infatti sebbene egli offrisse inizialmente rifugio al Pecorino, a suo fratello Giovanni, al suocero Romeo Barlettani e ai due amici Bartolomeo Minucci e Biagio Lisci, non seppe tuttavia opporsi poco dopo con la necessaria fermezza alla furia dei rivoltosi, coi quali, anzi, tentò di scendere a patti. Ma invano: nella notte tra il 22 e il 23 febbraio la folla inferocita sfondò le porte del palazzo del capitano per fare scempio dei traditori. Il Pecorino si diede allora ad una fuga disperata e battendosi fino allo stremo cercò infine scampo in una piccola cella situata in cima alla Torre del Porcellino, ma vi morì soffocato dal fumo acre e denso dell’incendio che i suoi assedianti, per stanarlo, avevano appositamente appiccato dando fuoco a mucchi di zolfo. La sua morte tuttavia non bastò a placare la furia degli assalitori i quali, raggiunto il suo cadavere, lo spogliarono e lo gettarono nella piazza per poi trascinarlo trionfanti per le vie della città. Dal suo matrimonio con Lucrezia di Romeo Barlettani erano nati quattro figli tra i quali si distinse soprattutto Tommaso detto “Fedra” o “Fedro”, celeberrimo umanista.
Tommaso detto “Fedra” o “Fedro” INGHIRAMI (1470-1516)
Nato a Volterra nel 1470 da Paolo Inghirami detto “Pecorino” e da Lucrezia di Romeo Barlettani, all’età di due anni perse il padre (filomediceo), che fu ucciso dalla popolazione nei tumulti scoppiati a Volterra tra il 22 e il 23 febbraio 1472 per la gestione dell’allumiera del Sasso. In seguito a quella tragica circostanza e alle rovinose vicende che ne derivarono le case degli Inghirami furono saccheggiate i loro beni confiscati e i componenti della famiglia furono costretti all’esilio. Il piccolo Tommaso fu pertanto affidato alle cure dello zio paterno Giovanni e trasferito a Firenze dove era certa la protezione di Lorenzo il Magnifico, da tempo amico di casa Inghirami. Tommaso crebbe così alla corte medicea e a Firenze iniziò con grande impegno lo studio delle arti, della poesia e della retorica. Nel 1483, all’età di tredici anni, si trasferì a Roma e, grazie al concreto contributo di alcuni concittadini che vi svolgevano importanti mansioni (come ad esempio suo zio paterno Mons. Antonio Inghirami, Segretario e Cubicolario di Sisto IV), proseguì gli studi alla scuola di Pomponio Leto dove ebbe per compagno Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III. In questi primi anni romani ebbe un grande influsso su di lui la figura del volterrano Iacopo Gherardi dal quale apprese parte di quella vasta erudizione e di quello stile retorico che lo resero celebre e che egli integrò con lo studio approfondito della Filosofia, del Diritto, della Storia e della Politica. Nondimeno, si dedicò con particolare passione alla rinascita del teatro romano e lo strano soprannome di Fedra - o, meglio ancora, Fedro (dato che in tal modo egli era solito sottoscriversi nelle sue lettere e visto che i codici più antichi, i suoi familiari e quasi tutti i contemporanei lo chiamano costantemente Phoedrus o Fedro) - gli derivò proprio dall’aver impersonato mirabilmente quella parte femminile in una rappresentazione dell’Ippolito di Seneca fatta allestire nel 1488 dal cardinale di San Giorgio davanti alla residenza del conte Girolamo Riario in Piazza della Cancelleria a Roma. A rendere memorabile quella sua recitazione fu in particolare il fatto che essendosi rotta improvvisamente una macchina teatrale senza la quale la rappresentazione della tragedia non poteva proseguire, egli, senza scomporsi minimamente, trattenne il pubblico improvvisando in versi latini finché la macchina non fu riparata. Il soprannome così acquisito, con suo compiacimento, gli restò sempre legato ed anzi si trasmise anche alle sue cose, tant’è che perfino una vigna posta sul Palatino (sopra il Circo Massimo, presso le Terme Palatine, vicino a S. Marco) e da lui consacrata alle Muse ed all’ispirazione letteraria, prese il nome di Orti di Fedra, e come tale il luogo era ancora noto alla fine del Cinquecento. La passione per il teatro e l’amore per la recitazione non lo distolsero tuttavia dallo studio della letteratura classica e della retorica antica; ben presto infatti conquistò una tale fama come poeta latino e, soprattutto, come oratore che Erasmo da Rotterdam nelle sue Epistole lo definì come il “Cicerone del suo secolo”. Unito quindi da forti vincoli di amicizia e di stima con i maggiori umanisti e letterati del suo tempo, successe a Pomponio Leto nell’insegnamento della Retorica e dell’Eloquenza nell’Università di Roma con uno stipendio di 300 fiorini d’oro. Appassionato ricercatore e postillatore di codici, scrisse anch’egli varie opere in latino: orazioni ispirate all’eloquenza ciceroniana, brevi trattati di storia e di retorica, carmi ed epistole. Tale fu la sua notorietà nel mondo degli umanisti che anche l’Ariosto lo immortalò (assieme al “Volterano” Mario Maffei) nell’Orlando Furioso (XLVI, 13) tra i letterati riuniti attorno al cardinale Alessandro Farnese:
Ecco Alessandro il mio Signor Farnese:
oh dotta compagnia che seco mena!
Fedro, Capella, Porzio, il bolognese
Filippo, il Volterano, il Madalena
Questo suo indiscusso talento nell’eloquenza gli valse l’amicizia dei personaggi più illustri della sua epoca e tutti i pontefici da Alessandro VI a Leone X lo onorarono della loro protezione e lo colmarono di benefici. Benché non fosse mai ordinato sacerdote, ricevette senza dubbio gli ordini minori come dimostrano i numerosi titoli, incarichi e benefici ecclesiastici di cui godette. La sua straordinaria capacità oratoria gli procurò di essere incaricato da Alessandro VI nell’estate del 1496 di accompagnare a Meda il cardinale Bernardino Carvajal in una difficile missione diplomatica presso l’imperatore Massimiliano I dalla quale fece ritorno a Roma nell’anno seguente. In quell’occasione le sue indiscusse doti gli procurarono un tale successo come oratore che l’imperatore Massimiliano I con diploma rogato in Innsbruck il 14 marzo 1497 lo nominò conte palatino, proclamandolo inoltre poeta laureato e concedendogli il privilegio, trasmissibile ai suoi successori, d’inserire nel suo stemma gentilizio l’aquila dell’Impero, mentre Alessandro VI, dal canto suo, lo ricompensò con vari benefici ecclesiastici e nel 1503 gli attribuì un Canonicato in S. Giovanni in Laterano. Parimenti, fu assai gradito al successivo papa Giulio II che infatti lo nominò Segretario del Sacro Collegio dei Cardinali, Segretario dei Brevi ad Principes, accolito partecipante (1504) e preposto della Biblioteca Apostolica Vaticana (1505). Nel gennaio 1508 prese possesso di una prebenda e di un canonicato in S. Pietro, rinunziando a quello lateranense; fu quindi nominato prefetto dell’Archivio di Castel S. Angelo e finalmente, nel 1510, Prefetto e Bibliotecario della Vaticana in sostituzione del defunto Giuliano Maffei da Volterra. Nel 1509 conobbe il grande Raffaello Sanzio che, forse l’anno seguente, lo ritrasse nel celebre dipinto che si conserva oggi nella Galleria Palatina (Sala di Saturno) di Palazzo Pitti. Nel 1513 svolse le funzioni di Segretario nel Conclave indetto per la morte di Giulio II e dal quale uscì eletto Leone X e tale fu la stima di cui godette anche nella sua città natale che nel 1515 la comunità di Volterra lo incaricò assieme ai volterrani Geremia Contugi, Arcivescovo di Cirene, e Iacopo Gherardi, Vescovo di Aquino, delle funzioni di rappresentanza funebre presso Leone X per la morte di Giuliano de’ Medici. Al periodo maggio-agosto 1516 risalgono infine le sue ultime uscite pubbliche allorché prese parte come Segretario al Concilio lateranense partecipando poi alla adunanze del Capitolo Vaticano. Morì infatti a Roma, a soli 46 anni, il 5 settembre 1516, lasciando incompiuta un’Apologia contro i biasimatori di Cicerone. Per tentare di chiarire le circostanze controverse della sua morte (attribuita, secondo alcuni biografi, ad una malattia contratta in seguito al grande spavento riportato per una caduta che gli fu quasi fatale) può risultare utile richiamare brevemente qualche considerazione su ciò che accadde: mentre si avviava sul dorso di una mula lungo la Via Sacra verso il Laterano, Fedra si imbatté, nei pressi dell’Arco di Tito, in un carro carico di sacchi di grano trainato da due bufali: la mula spaventata dai due animali lo gettò a terra e Fedra finì tra le pesanti ruote del carro restando però miracolosamente incolume. Secondo alcuni questo episodio sarebbe accaduto nel 1516 e ad una sua lontana conseguenza sarebbe dovuto il successivo decesso dell’Inghirami. Mons. Galletti (che fu vescovo di Volterra dal 1768 al 1782) tuttavia, osservando l’abito in cui fu rappresentato Fedra nell’ex voto raffigurante l’episodio (fatto dipingere dallo stesso Fedra dopo la caduta) ed oggi conservato nella sala capitolare di S. Giovanni in Laterano, argomentò in modo ineccepibile che il fatto doveva essere accaduto prima del 1508; e poiché egli non morì che nel 1516, ne trasse per conseguenza “che egli non morisse già per quel sinistro accidente”. La Biblioteca Guarnacci di Volterra conserva un codice (ms.5885, coll. LIII.4.8) segnato Thomae Phedri Inghirami carmina, epistolae et orationes che contiene alcuni scritti non autografi del grande umanista volterrano che raccoglie 24 poesie latine, 59 lettere (tutte in latino e comprese tra il 1494 e il 1516) e 8 orazioni (anch’esse in latino).
Inghiramo INGHIRAMI (sec. XVI)
Nato a Volterra da Giovanni di Antonio Inghirami e da Caterina di Bartolomeo Riccobaldi Del Bava, fu scrittore della Penitenzieria apostolica alla Curia romana.
Mario INGHIRAMI (ca 1560-1623)
Nacque a Volterra intorno al 1560 da Lodovico di Cornelio Inghirami e da Fulvia (o Silvia) di Lodovico Riccobaldi del Bava (Battistini). Per quanto riguarda l’attribuzione della sua nascita al 1560 o la sua discendenza materna dalla Riccobaldi Del Bava esistono seri motivi d’incertezza poiché suo padre Lodovico, restato vedovo, si risposò, pare nel 1558, con Marietta di Cipriano Bardini. Al di là comunque delle questioni anagrafiche, è certo che, dedicatosi agli studi, completò la sua istruzione presso l’Università di Pisa dove si laureò nel 1581 e dove fu nominato per quello stesso anno Rettore dello Studio Pisano. Dopo avere svolto il suo incarico con dignità e decoro, tornò a Volterra dove coprì cariche importanti, come quella di Proposto dei Priori. Sposò dapprima Brigida di Giusto Falconcini (vedova di Ottaviano di Martino Falconcini), ma restato vedovo contrasse nuove nozze nel 1601 con Costanza (o Flaminia) di Guido (o Francesco) Baldovinetti, vedova di ser Achille di Paolo Antonio Falconcini. Morì a Volterra il 23 dicembre 1624.
Ammiraglio. Nato a Volterra nel luglio 1565 da Giovanni di Cornelio Inghirami e da Lucrezia di Agostino di Ser Persio Falconcini e vestito l’abito di Cavaliere di Giustizia dell’Ordine di S. Stefano nel 1581, s’imbarcò sulle galere stefaniane per il necessario addestramento militare partecipando a diverse missioni marittime fino al 1584. Intorno al 1586 si recò in Francia dove prese parte a diverse battaglie guadagnandosi l’ammirazione e la piena fiducia del Generale Duca di Mercurio che lo decorò coi gradi di Capitano. Rientrato in Toscana dopo nove anni, nel 1596 fu nominato comandante della galera Livornina dal Granduca Ferdinando I dando così inizio alla sua irresistibile ascesa nella marineria stefaniana grazie ai suoi straordinari successi navali riportati sui Turchi; nel 1599, infatti, fu nominato Capitano della galera Padrona e nel 1600 fu promosso Comandante della Capitana. Nel 1602, in seguito a una sua nuova brillante operazione nell’Egeo in cui riuscì a strappare ben quattro navi ai Turchi catturando 424 prigionieri e liberando 245 cristiani, fu nominato Ammiraglio, carica che mantenne per ben quindici anni. Sotto il suo comando la marina stefaniana conobbe il periodo di massimo splendore con la cattura di decine di navi e la conquista di numerose città e fortezze in Barberia e nel Mediterraneo orientale. Tra tutte queste imprese (tra cui si ricordano, ad esempio, 1’espugnazione della piazzaforte di Bisken nel 1610 o la conquista di Agaliman in Caramandia nel 1613) la più famosa è sicuramente la presa della città di Bona in Barberia (l’attuale Annaba) che sotto l’aspetto della tecnica militare rappresentò “un esempio da manuale di operazione anfibia del tipo incursione, svolta con criteri di modernità e da consistenti forze terrestri e navali”. Animato da un profondo spirito religioso, a partire dal 1605 fece erigere nella Cattedrale di Volterra una cappella che volle intitolare alla “Conversione di S. Paolo” (in segno di gratitudine per il santo al cui favore egli attribuì le tante vittorie e i continui successi militari), contribuendo inoltre alla spese per la costruzione della Cappella di S. Carlo. In virtù quindi delle sue indiscutibili e ormai celebri qualità militari e della assoluta fiducia che in lui riponeva la corte granducale, nel 1616 Cosimo II lo nominò Governatore di Armi e di Giustizia della città di Livorno concedendogli inoltre (nello stesso anno), col titolo di marchese, il feudo di Monte Giovi in Val d’Orcia (a NW di Castel del Piano) sua vita durante nonché il Priorato di Borgo S. Sepolcro che fu istituito appositamente per lui e che fu dichiarato trasmissibile ai discendenti: tale fu la gratitudine dell’Inghirami per Cosimo II che ne fece collocare un busto in pietra sulla porta del suo palazzo. Come Governatore di Livorno svolse il suo compito con grande capacità fino al 1621 quando assunse nuovamente il comando della flotta stefaniana col supremo e onorifico titolo di Generale del Mare conferitogli dal granduca Ferdinando II. Imbarcatosi quindi egli stesso, guidò ancora in prima persona le galere di successo in successo fino alla vigilia della morte sopravvenuta a Volterra il 3 gennaio 1624. E’ sepolto nella Cappella di S. Paolo nel Duomo di Volterra.
Bernardo INGHIRAMI (1581-1633)
Vescovo. Nato a Volterra il 20 agosto 1581 da Agostino di Giovanni Inghirami e da Maria del Cav. Michelangelo Lottini, compì gli studi universitari a Pisa dove si laureò a 21 anni in utroque iure e dove tenne successivamente, dal 1601 al 1608 la cattedra di “istituzioni imperiali”. Fu poi per tre anni auditore alla Ruota di Siena finché, nel 1612 andò a Roma dove, vestito l’abito clericale, fu auditore del cardinale Alessandro Orsini, duca di Bracciano. Eletto quindi vescovo di Volterra nel 1617, provvide a dotare la città di una degna sede episcopale in quanto dacché nel 1472 i fiorentini avevano demolito il Palazzo Vescovile sul piano di Castello i vescovi volterrani erano stati costretti a risiedere in un palazzo preso in affitto nella Curia di S. Michele. Nel 1618, infatti, acquistò (a proprie spese per 3.000 scudi) dal Comune tutti i locali soprastanti l’Ufficio della Gabella (situato sotto un loggiato prospiciente la Piazza dei Priori), la “casa dei granai” e la “libreria” e istituì in tale sede il nuovo Vescovado. Nel 1620 eresse la Pieve di S. Maria a Ciciano e nel 1622 contribuì in modo determinante alla nascita della sede episcopale di S. Miniato; sempre nel 1622 benedisse la Cappella di S. Carlo in Cattedrale e nel 1625 consacrò la chiesa del monastero di S. Chiara. Nell’ottobre del 1628, infine, pose la prima pietra della chiesa nuova di S. Giusto. Afflitto da numerosi malanni ed in particolare dalla gotta, “visse per più anni semivivo”. Morì a Volterra il 5 giugno 1633.
Nato a Volterra nel 1589 da Agostino di Giovanni Inghirami e da Maria di Salvatico Guidi, ebbe sette fratelli tra i quali si distinsero Bernardo (vescovo di Volterra dal 1574 al 1598) e Tommaso Fedra (capitano delle galee stefaniane). Addottoratosi in giurisprudenza a Pisa nel 1611, entrò al servizio della corte medicea svolgendo anche importanti incarichi internazionali; nel 1616 infatti fu inviato in Spagna come segretario dell’ambasciatore granducale conte Orso d’Elci e nel 1618 fu ambasciatore a Madrid. Nel 1622 fu nominato segretario dell’arciduchessa Maria Maddalena, tutrice per gli affari di Colle e S. Miniato e dell’arciduchessa Cristina tutrice degli affari di Montepulciano e Pietrasanta. Dopo la morte di quest’ultima svolse la mansione di segretario dei principi Giovancarlo e Leopoldo. Fu inoltre segretario di Cosimo II e di Ferdinando II, soprintendente alle possessioni del cardinale Carlo de’ Medici, custode della Segreteria Vecchia e infine, dal 1637, generale delle Poste. Nel 1633 vestì l’abito di cavaliere di S. Stefano. Ebbe per moglie la volterrana Girolama di Pompeo Incontri. Morì a Firenze il 7 maggio 1639 (5 maggio secondo Giachi). La Biblioteca Guarnacci conserva un suo Repertorio politico manoscritto in tre volumi (ms. 5815, coll. LII.4.1).
Tommaso Fedra INGHIRAMI (1592-1626)
Nato a Volterra nel 1592 da Agostino di Giovanni Inghirami e da Maria di Salvatico Guidi, ebbe sette fratelli tra i quali si distinse particolarmente Bernardo, vescovo di Volterra dal 1617 al 1633. Nipote dell’ammiraglio Iacopo (suo zio paterno), fin da bambino si sentì attratto dall’esercizio delle armi: fatte dunque le necessarie provanze di nobiltà e trascorsi tre anni continui in navigazione sulle galee stefaniane con lo zio ammiraglio, il 20 ottobre 1609 vestì l’abito di cavaliere di S. Stefano. Il 27 dello stesso mese s’imbarcò sulla gale a Capitana sotto gli ordini diretti dello zio Iacopo navigando fino al 1613 e prendendo parte a numerose imprese. Distintosi per il suo valore, fu apprezzato dal Granduca che volle ricompensarlo nominandolo nel giugno 1616 capitano della galea Capitana. Appena un mese dopo fu tuttavia costretto a lasciare il mare a causa dei forti attacchi di vertigini che lo affliggevano e si ritirò quindi a Volterra per curarsi. Ai primi del 1617 riprese il mare per partecipare ad una missione stefaniana nel Levante e durante questo viaggio partecipò a vari combattimenti nell’arcipelago greco e in quello toscano tenendo il comando della galea S. Stefano. Combatté poi fra la Corsica e l’Elba e quindi presso l’Isola di Lampedusa contro 6 galee turche. Negli anni seguenti navigò ininterrottamente sotto lo zio Iacopo e alla morte di questi proseguì poi nel servizio agli ordini dell’ammiraglio Giulio dei conti di Montauto. Fu trattato con ogni deferenza e riguardo dal Granduca e nel 1620 ottenne dall’Ordine di S. Stefano la commenda sopra la tassa dei facchini della Dogana di Firenze. Nel 1626 fu però costretto a sbarcare per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute e stavolta fu un abbandono definitivo. Si spense infatti a Livorno all’età di 34 anni il 23 ottobre 1626 e fu sepolto nella Chiesa della Madonna del Carmine.
Nacque a Volterra il 29 dicembre 1614 da Inghiramo del Cav. Curzio e dalla senese Silvia di Giulio (di Francesco, secondo Arch. Maffei, LI, p. 187) Piccolomini. Applicatosi fin da piccolo con alacre impegno allo studio delle discipline classiche, maturò (grazie anche alla precoce consuetudine col ricchissimo archivio e con la vasta biblioteca di famiglia) una straordinaria passione per la storia e le antichità locali che lo spinse fin dagli anni giovanili, assieme al carissimo amico Raffaello Maffei (futuro Provveditore delle saline e della Fortezza), ad intraprendere uno studio sistematico e approfondito dei documenti conservati nell’archivio del Comune, in quello vescovile e negli archivi del Capitolo e della Badia Camaldolese. Fu dunque in tale contesto di febbrili ricerche e di acceso entusiasmo che nel 1634 Curzio portò, a suo dire, alla luce, durante alcuni scavi intrapresi presso la sua villa di Scornello, una serie di documenti cartacei riguardanti parte della storia, dei riti e delle profezie degli Etruschi e compilati da tale Prospero Fesulano intorno al 60 a.C. sulla scorta delle memorie di alcuni presunti autori coevi e dallo stesso Fesulano sepolti in quel luogo ai tempi della guerra di Catilina affinché non cadessero nelle mani dei Romani che stavano per occupare la rocca di Scornello. L’enfasi data alla scoperta di tali documenti, (che presero il nome di Scaripti dal termine “etrusco” con cui era designato l’involucro costituito da diversi strati di bitume, di cera e di terra cotta in cui erano racchiuse tali memorie rappresentate da piccoli e irregolari pezzi di carta) e il volume Etruscarum antiquitatum fragmenta, quibus urbis Romae aliarumque gentium primordia, mores et res gestae indicantur, a Curtio Inghiramo reperta Scornello prope Volterram, che Curzio pubblicò nel 1637 a Francoforte, non bastarono tuttavia ad impedire che fosse riconosciuta la loro integrale falsità e che il loro scopritore venisse universalmente screditato come millantatore ed impostore. Coloro che, come il Tiraboschi, presero le sue difese sostennero che si era trattato di uno scherzo feroce da parte di ignoti che miravano a colpire la credulità e l’entusiasmo del giovane e appassionato studioso, che. a Volterra quei documenti non avrebbero procurato più lustro di quello di cui la cittàgià godeva per la sua indiscutibile antichità e che, non ultimo, era da considerare la dispendiosa campagna di scavo condotta da Curzio, i severi processi di verifica imposti dal granduca Ferdinando II e il costoso volume con cui divulgò la sua scoperta. Per l’Inghirami furono anni veramente difficili tant’è che la sua immagine di storico e di studioso ne risultò ai più definitivamente compromessa. Egli tuttavia non si lasciò intimidire dagli attacchi e dalle fondate argomentazioni dei maggiori esperti dell’epoca ed anzi nel 1645 pubblicò a Firenze (presso Massi) un Discorso sopra l’opposizioni fatte all’antichità toscane con cui intese difendere ancora la veridicità dei documenti da lui scoperti e, di conseguenza, l’indiscutibile primato di Volterra durante periodo etrusco. Dopo aver sposato intorno al 1640 la vedova di Anton Lorenzo di Michelangelo Riccobaldi Del Bava, Orsola di Ser Claudio Ciupi (dalla quale ebbe i figli Lino, Caterina e Silvia e che dopo la sua morte si risposò col Provv. Raffello Maffei), fu comunque incaricato ufficialmente, assieme all’amico Raffaello Maffei, di svolgere un accurato inventario di tutti i corpi santi e di tutte le reliquie presenti nelle chiese volterrane da inserire poi nella grande raccolta degli Atti dei Santi avviata in Belgio dal Bollando. Il suo sodalizio intellettuale con Raffaello Maffei produsse inoltre una serie di ricerche genealogiche sulle maggiori famiglie volterrane di cui si conservano oggi i risultati nella Biblioteca Guarnacci di Volterra (ms.5888, coll. LIII.4.11: Alberi genelogici di famiglie volterrane compilati da C. Inghirami) ed al suo personale interessamento ed alle sue ricognizioni archivistiche relative alla storia dei vescovi volterrani dovette moltissimo Scipione Ammirato che di quei dati trasmessigli scrupolosamente dall’Inghirami fece ampio uso nella sua storia dei vescovi di Fiesole di Volterra e di S. Miniato. Nominato Consolo dell’Accademia dei Sepolti in considerazione della sua indiscutibile reputazione di erudito e di fattivo sostenitore della storia e delle trascorse glorie cittadine, mantenne tale carica fino alla morte, allorché gli subentrò l’amico Raffaello. Grazie alla sua profonda conoscenza della storia giuridica ed istituzionale volterrana acquisì una non comune esperienza nella gestione politica degli affari pubblici dell’epoca tant’è che quando nel 1650 alcuni consigliarono il granduca Ferdinando II di sostituire gli approvvigionamenti di sale volterrano con quello, supposto più attivo, di Trapani, egli intervenne con un articolato Discorso sopra la proposta fatta dai Sigg. Soprassindaci di provvedere lo Stato di sale forestiero, e non più di Vo/terra in cui, con argomenti politici, economici e merceologici (e unitamente alle risentite proteste dei volterrani), riuscì a sventare il paventato provvedimento. Quando poi durante il 1650 il volterrano fu devastato da una terribile carestia che spopolò le campagne e che andò ad aggravare ulteriormente l’erario cittadino (già duramente provato dalla pestilenza del 1630 e dalle spese straordinarie sostenute in fortificazioni, armi e materiali per il contributo alla recente guerra granducale contro i Farnese) e per la Comunità di Volterra divenne quindi impossibile provvedere al pagamento dei contributi annuali dovuti alle Casse Regie (con la conseguenza di incorrere in pesantissime sanzioni come l’annullamento delle prerogative e degli onori nobiliari), egli svolse un’importante ambasceria presso il granduca in virtù della quale, implorando clemenza, riuscì a far valere le ragioni della sua città ottenendo un risarcimento per le spese di guerra, il rilascio dei cittadini imprigionati e una lunga dilazione nel pagamento dei debiti accumulati. Di tutta la sua attività di uomo politico la testimonianza indubbiamente più interessante resta comunque la compilazione nel 1651 della cosiddetta “Riforma di Curzio”, ossia un compendio di tutte la antiche Riforme e Statuti volterrani, di tutti i Privilegi e i Rescritti sovrani nonché di tutti i Decreti e le Sentenze della magistratura fiorentina, che pur elaborata da un Consiglio (“Magistrato dei Riformatori”) costituito da otto dei più illustri cittadini volterrani (Ferdinando Incontri, Persio Falconcini, Raffaello Maffei, Camillo Bava, Alessandro Fei, Francesco Marchi, Lorenzo Bonamici e Curzio Inghirami) e benché integrata da una serie di opportune Leggi agrarie rivolte a sanare la disastrosa situazione in cui versavano allora le campagne volterrane, non piacque tuttavia ai Magistrati di Firenze e non trovò mai alcuna applicazione. Infaticabile ricercatore di documenti d’archivio e profondo esperto di cose volterrane, Curzio fu però artefice di vere e proprie contraffazioni storiche che, intese a magnificare sempre più le trascorse glorie cittadine, contagiarono nella falsificazione dei dati e degli avvenimenti anche l’amico Raffaello Maffei che nella sua Storia Volterrana narrò fatti (quali, ad esempio, la visita di Enrico III a Volterra nel 1046, l’incontro volterrano tra la contessa Matilde di Canossa e papa Alessandro II nel 1062, le contese del 1108 ecc.) puramente immaginari e che trovano la loro matrice in quell’Estratto delle scritture del Camerotto della città di Volterra fatto nel 1561 che è conservato nella Biblioteca Guarnacci (ms.5892, coll. LIII.5.1) e di cui è ormai riconosciuto autore lo stesso Curzio Inghirami (nel 1561, infatti, non venne compilato alcun regesto delle scritture d’archivio). A spingere questi studiosi di sicuro talento e di non comune erudizione sul terreno della mistificazione e dell’invenzione fu infatti un fenomeno che caratterizzò in quel tempo anche altri centri toscani e che aveva il preciso scopo “… di valorizzare la propria città e di accrescere illustro di alcune famiglie, attribuendo a immaginari antenati, introdotti nella narrazione, imprese gloriose ed uffici importanti. L’esaltazione di origini illustri (...) aveva una portata non solamente simbolica, ma poteva tradursi in lucrosi incarichi, che si usava allora riservare alle classi nobili” (Fiumi). Curzio Inghirami morì a Volterra il 23 dicembre 1655 lasciando una serie di scritti inediti alcuni dei quali si conservano oggi nella Biblioteca Guarnacci: Fragmenta antiquitatum etruscarum Scornello reperta 1635 (ms.5827, coll. LII.6.1); Scharith inediti ritrovati negli anni 1636-37. Frammento del diario del ritrovamento, ecc. (ms.5830, coll. LII.6.4); Annali toscani (ms.5325, coll. XLVI.4.1); Spogli di diversi codici del pubblico Archivio di Vo/terra (ms.5894, coll. LIII.5.3).
Pietro Girolamo INGHIRAMI (1701-1758)
Nato a Volterra il 29 giugno 1701 dal cav. Michelangelo del cav. Iacopo Inghirami e da Anna Rosa di Girolamo Guarnacci, ebbe per fratello Iacopo Gaetano, arcivescovo di Pisa. Vestito nel 1708 l’abito di cavaliere di S. Stefano, nel 1723, per la morte del padre, ottenne l’investitura del priorato di Borgo S. Sepolcro e della commenda Lisci, ossia Lottina, di suo padronato. Fu inoltre uno dei dodici cavalieri del consiglio dell’Ordine di S. Stefano e Commissario e Capitano generale della città di Pisa e luoghi annessi. Nel 1734 sposò Brigida di Giannozzo Da Cepparello dalla quale ebbe due figli. Morì a Pisa il 9 aprile 1758.
Iacopo Gaetano INGHIRAMI (1705-1772)
Vescovo. Nato a Volterra il 16 settembre 1705 da Michelangelo di Iacopo Inghirami e da Anna Rosa di Girolamo di Raffaello Guarnacci, si dedicò alla vita ecclesiastica e, compiuti gli studi a Roma e a Pisa, divenne canonico della Cattedrale nel 1729. A seguito della morte del vescovo Pandolfini (1746) fu eletto Vicario Capitolare e nel 1749, a causa dell’assenza del vescovo Du Mesnil, ebbe da Benedetto XIV l’incarico di Vicario Generale apostolico per la città e per la diocesi di Volterra. Nel marzo 1755 fu nominato vescovo di Arezzo e per diciassette anni amministrò con zelo e capacità quella diocesi provvedendo in particolare all’istruzione del clero. Nel settembre del 1767 (ovvero nel periodo compreso tra gli l’episcopato del volterrano Filippo Nicola Cecina e quello di Nicolò Galletti) fu invitato ufficialmente nella sua città natale e in quell’occasione cresimò oltre duemila persone. Morì a Volterra, dove si era recato in visita alla sua famiglia, il 20 maggio 1772 e la sua salma, tumulata dapprima nel sepolcro di famiglia nella Cappella di S. Paolo, fu in seguito trasferita ad Arezzo.
Michelangelo INGHIRAMI (1750-1819)
Nato a Volterra nel 1750 dal Cav. Cap.no Giovan Bartolomeo del Priore Cav. Michelangelo Inghirami e dalla contessa Caterina Giraldi di Firenze, fu capitano nel Corpo dei Dragoni dal 1798 e colonnello comandante la piazza di Volterra dal 1816. Nel 1811 sposò Isabella Giuseppa del Cav. Niccolò Luigi Maffei dalla quale ebbe due figli. Morì nel 1819.
Nato a Volterra nel 1765 dal Cav. Niccolò del Cav. Curzio Ottaviano e da Lidia del marchese Marcello Venuti di Cortona, ebbe otto fratelli tra i quali spiccarono il guardiamarina Giuseppe, lo scolopio Giovanni, l’archeologo Francesco e il Cav. Marcello. Divenuto cavaliere stefaniano nel 1773, viaggiò molto per mare come tenente di vascello della Marina da Guerra olandese visitando molti paesi, soprattutto in Africa ed in America, e lasciando di questi viaggi alcuni diari ricchi di notizie e di osservazioni e pervasi da toni illuministici (cfr. ad es. B. G. V., Arch. Maffei, filza 21: C. Inghirami, Giornale di viaggi in America dal 5 marzo 1787 alI ottobre 1788). Probabilmente si deve a lui il primo lancio di palloni ad aria calda dal continente africano, che fu infatti effettuato nel 1787, appena tre anni dopo l’ascensione dei Montgolfier. Tornato a Volterra, partecipò attivamente alla rivolta antifrancese del 1799 prodigandosi in varie azioni militari. Il 6 luglio 1799, ad esempio, dopo aver conquistato Cecina col piccolo esercito capitanato dal fratello Cav. Marcello ed essere restato da solo al comando delle truppe, iniziò la marcia verso Nord impadronendosi dei forti di Vada e di Castiglioncello. La sua avanzata fu tuttavia temporaneamente interrotta il giorno 12 presso il forte del Romito dove fu stabilito il nuovo quartier generale e da dove Curzio quello stesso giorno inviò il suo aiutante con una feluga a Portoferraio per intimare la resa al comandante francese di quella fortezza. Il giorno 14 le truppe guidate da Curzio ripresero la marcia e si accamparono presso Montenero dove furono raggiunte da Marcello Inghirami che riassunse in pieno il comando delle operazioni. Conquistata così successivamente anche Livorno, la guarnigione volterrana prese pieno possesso della città mantenendola sotto il suo controllo per quattro giorni in attesa dell’imminente arrivo delle truppe austriache. In questo breve lasso di tempo Curzio, servendosi “di tutti quei strattagemmi che si possono usare da terra per predare dei bastimenti”, il giorno 18 luglio s’impadronì d’uno sciabecco munito di 14 cannoni facendo prigionieri i marinai dell’equipaggio ed un contingente di 110 soldati francesi diretti a Portoferraio, mentre il giorno seguente depredò una nave (la Sultana) proveniente da Portoferraio e forte di 20 cannoni e una tartana detta il Temerario. Le azioni belliche ebbero termine poco dopo e in breve tempo si dissolse anche la sollevazione antifrancese che aveva visto protagonisti i fratelli Inghirami: il ritorno in Italia dei Francesi e le loro rappresaglie imposero un periodo di esilio a coloro che si erano più esposti in quei frangenti. Curzio, per parte sua, dopo aver sposato nel 1802 Anna di Persio Benedetto Falconcini (dalla quale ebbe tre figli) si stabili a Livorno dove, anticipando l’attività dei celebri “viaggiatori” dell’alabastro, impiantò nella base navale una florida impresa di commercio e di esportazione internazionale di alabastri lavorati. Morì nel 1815.
Francesco INGHIRAMI (1772-1846)
Storico e archeologo. Nato a Volterra il 22 ottobre 1772 dal cav. Niccolò del cav. Curzio Ottaviano Inghirami e da Lidia del marchese Marcello Venuti di Cortona, ebbe due sorelle e cinque fratelli tra i quali si distinsero in particolar modo Giovanni, astronomo e geodeta di fama internazionale, e Marcello, primo animatore della lavorazione industriale e della commercializzazione dell’alabastro. Avviato allo studio nel collegio volterrano delle Scuole Pie in S. Michele, ne uscì nel 1785 (ovvero un anno prima che vi entrasse il fratello minore Giovanni) e fu quindi indirizzato, quindicenne, alla carriera militare in quanto suo padre individuava in lui il successore del famoso antenato Iacopo, ammiraglio stefaniano e gloria militare della famiglia. A tale scopo fu inviato a Malta perché fosse iscritto all’Ordine Gerosolimitano. Qui ebbe occasione di conoscere il re di Napoli che egli scortò in più d’un viaggio per mare e che lo chiamò a far parte del reggimento dei cadetti reali di stanza nel capoluogo partenopeo. A Napoli fu ospitato dallo zio materno Domenico Venuti, che vi ricopriva l’incarico di direttore della fabbrica delle porcellane e del Museo Farnese e che gli fornì dunque l’occasione di studiare gli antichi monumenti rafforzando così la sua genuina e originaria passione per le belle arti e per l’archeologia a tal punto da destare in lui il desiderio di abbandonare le armi e di dedicarsi completamente allo studio. A seguito di tale scelta si applicò dunque a studiare indefessamente i volumi della biblioteca del marchese Borio e a disegnare i monumenti del Museo Farnese compilando alcuni scritti (1790) che gli procurarono una buona reputazione di archeologo e la nomina ad intendente generale degli scavi d’antichità nel Regno di Napoli. Come tale si guadagnò a tal punto la stima del sovrano che questi lo volle premiare con l’omaggio di una tabacchiera d’oro. Nel 1791 lo troviamo a Firenze dove sotto la guida del Lanzi, etruscologo di fama europea, si applicò con passione al disegno e all’archeologia. Rientrato a Volterra a causa della sua salute malferma, partecipò assieme ai fratelli Marcello e Curzio ai moti antifrancesi del 1799 e, col grado di capitano della cavalleria del litorale toscano, ebbe l’incarico di condurre a Pisa 700 prigionieri napoleonici catturati nell’avanzata sulla costa dal piccolo ma combattivo esercito volterrano. Trasferitosi a Pisa presso l’amico Filippo Hackert per apprendere da lui la pittura di paesaggio, su preghiera del fratello celebrò i successi conseguiti nelle azioni militari di quell’anno nell’operetta Relazione officiale delle imprese fatte dalle armi volterrane nel littorale toscano (Livorno, presso G.D. Giorgi, 1799) con la quale intese glorificare le azioni delle armi volterrane. Questi avvenimenti militari rappresentarono tuttavia solo una breve parentesi poiché egli era ormai indirizzato unicamente verso le sue due grandi passioni: l’archeologia e il disegno. Si dedicò così alacremente allo studio dei reperti conservati nel Museo Etrusco di Volterra con l’idea di trame una pubblicazione. Con tale scopo viaggiò per tutta Italia, visitando in particolare la Sicilia e Roma e giunto a Firenze vi si fermò per perfezionarsi nello studio del disegno e dell’incisione in rame presso l’Accademia di Belle Arti. Qui entrò in contatto con studiosi ed artisti e in compagnia dell’amico Filippo Hackert intraprese alcuni viaggi pittorici nelle campagne toscane. Tornato a Volterra per realizzare finalmente il suo lavoro sui monumenti etruschi, nel 1810 fu nominato Prefetto e Bibliotecario del Museo Guarnacci in sostituzione del defunto dotto Giuseppe Cailli che era succeduto nel 1805 all’abate Ballani. In tale mansione (che coprì fino al 1815) l’Inghirami prese l’iniziativa di formare un comitato con lo scopo di pubblicare le migliori 200 urne esistenti in Volterra (anticipando così l’opera del Brunn e del Korte), ma per la deficienza dei mezzi a disposizione e anche per l’incuria di dei alcuni promotori dovette rinunciare all’impresa. Il materiale che intanto aveva disegnato e inciso trovò poi il modo di utilizzarlo nelle sue pubblicazioni successive e in particolare nei Monumenti Etruschi. Tramontato così il suo progetto volterrano, nel 1811 l’Inghirami passò a Firenze per raccogliere i disegni dei monumenti presenti in gallerie pubbliche e private e in quella circostanza si prodigò anche nella pittura di alcune tele teatrali guadagnandosi una fama di valente scenografo. In questo periodo pubblicò l’opera Osservazioni sopra i monumenti antichi uniti all’opera l’Italia avanti il dominio dei Romani (1811) in cui criticò lo scritto pubblicato poco tempo prima da Giuseppe Micali suscitando grande consenso sia in Italia che in Francia. Nominato in quello stesso periodo Conservatore della Badia Fiesolana di S. Domenico, fu quindi chiamato dal granduca Ferdinando III a ricoprire anche l’incarico di Bibliotecario della Marucelliana: frutto degli studi di quegli anni furono le opere Descrizione dell’I. e R. Palazzo Pitti e Lettera sopra un bronzo etrusco che furono accolte con grande favore dal pubblico degli studiosi coevi. Stimolato da tali successi si decise finalmente a pubblicare i risultati dei suoi prolungati studi sui monumenti etruschi, ma ben consapevole della estrema cura personale di cui necessitava l’opera, ottenne nel 1819 la facoltà di aprire e dirigere una tipografia presso la Badia di S. Domenico in cui risiedeva, segnando così la nascita della celebre Poligrafia Fiesolana (che ebbe in seguito tra i suoi allievi anche il tipografo “volterrano” Benedetto Sborgi). Dopo una lunga gestazione vide così finalmente la luce nel periodo 1821-1826 la monumentale opera Monumenti etruschi che fu accolta in termini estremamente lusinghieri ed alla quale seguì nel 1831 la pubblicazione della Galleria Omerica, commento pittorico dell’Iliade e dell’Odissea, e quindi la stampa delle opere Etrusco Museo Chiusino (1833), Pitture di vasi fittili (1835) e Memorie per servir di guida all’osservatore in Fiesole (1839). In virtù della notevole reputazione acquisita fu accolto in numerose accademie letterarie scientifiche ed artistiche (l’Archeologica di Roma, l’Ercolanese di Napoli, la Regia di Torino, quella dei Georgofili, quella delle Belle Arti e quella della Colombaria di Firenze). Studioso infaticabile, nel 1845, ormai settentatreenne, dette alle stampe dopo anni di indefesso lavoro una monumentale Storia della Toscana in 16 volumi integrata da un atlante illustrativo nella quale trasferì i risultati delle sue scrupolose ricerche sulle complesse vicende storiche regionali: fu questa l’ultima fatica di una vita interamente dedicata allo studio ed alla diffusione della cultura. Divenuto ormai infermo, si spense a Firenze il 17 maggio 1846 e fu tumulato nelle Logge di S. Domenico. Nel prezioso archivio di casa Inghirami sono conservate due sue opere manoscritte (concepite probabilmente tra il 1809 e il 1811 e nel periodo in cui fu Prefetto del Museo etrusco) che rimasero inedite per mancanza di finanziamenti e che risultano di grande interesse per la bibliografia cittadina: L’Etrusco Museo di Volterra descritto dal Cav. Francesco Inghirami e Storia di Volterra ed appunti per la guida.
Giuseppe INGHIRAMI (1774-1858)
Nato a Volterra il 16 gennaio 1774 dal Cav. Niccolò del Cav. Curzio Ottaviano e da Lidia del marchese Marcello Venuti di Cortona, ebbe otto fratelli tra i quali si distinsero in particolar modo lo scolopio e geodeta Giovanni, l’archeologo Francesco e il cav. Marcello. Divenuto Guardiamarina nel 1787, vestì l’abito di cavaliere stefaniano nel 1791 tenendo poi per molti anni il comando della marina del Granducato. Sposò Lidia Inghirarni-Fei. Morì a Firenze il 3 marzo 1858.
Giovanni INGHIRAMI (1779-1851)
Astronomo e geodeta. Nato a Volterra il 26 aprile 1779 dal cav. Niccolò del cav. Curzio Ottaviano Inghirami e da Lidia del marchese Marcello Venuti di Cortona, ebbe due sorelle e cinque fratelli tra i quali spiccarono in particolar modo Marcello, primo animatore della lavorazione e del commercio dell’alabastro, e Francesco, storico della Toscana e archeologo. Dopo aver compiuto i primi studi nel collegio degli Scolopi in S. Michele dal 1786 al 1792, si recò quindi a Firenze per studiare al Collegio S. Giovannino, retto anch’esso dagli Scolopi, e maturata una sincera vocazione religiosa, nel 1795 entrò nell’ordine calasanziano. Contemporaneamente si dedicò con passione allo studio dell’astronomia (che apprese dai padri Canovai e Del Riccio), della geodesia, della meccanica, dell’idraulica e dell’ottica e nel 1800 rientrò a Volterra per insegnare filosofia e matematica nel collegio di S. Michele dove dal 1803 ebbe per allievo anche Giovanni Mastai Ferretti di Senigallia, futuro papa Pio IX. A Volterra dette esempio della sua perizia astronomica costruendo nel 1801 nella chiesa di S. Giusto uno gnomone di cui si può ancora oggi osservare un’esatta linea meridiana segnata su una navata dell’edificio e progettata per essere di pubblica utilità durante tutto il corso dell’anno. Frutto del suo periodo di insegnamento volterrano fu poi nel 1803 la pubblicazione del trattato Principi idromeccanici a cui fece seguire nel 1805 lo studio La statica degli edifizi: queste due opere richiamarono su di lui l’attenzione dei suoi Superiori che lo nominarono docente di matematiche elementari e di principi della filosofia razionale e della fisica nel collegio di Firenze. Coerentemente ai suoi profondi interessi astronomici iniziò a frequentare l’Osservatorio Ximeniano prodigandosi con successo per l’ampliamento ed il potenziamento della strumentazione in possesso di quell’istituto. Per impratichirsi nell’uso dei nuovi strumenti astronomici visitò i migliori osservatori italiani e nel 1807 si recò a Milano dove presso l’Osservatorio di Brera ebbe per maestri Oriani (famoso in tutta Europa per lo studio dell’orbita di Urano) e De Cesaris. Entusiasta di queste ricche esperienze di studio e di ricerca, rientrò a Firenze e ripresa la sua attività di docente elaborò un procedimento originale finalizzato all’uso dei naviganti per calcolare la longitudine in base all’occultazione delle stelle dietro la Luna. Tale studio confluì nella pubblicazione (con la collaborazione dal p. Canovai) di parecchie serie di queste tavole di occultazioni che furono conosciute e pubblicate anche in Germania ed in Inghilterra, ed in considerazione dei suoi meriti di studioso, nel gennaio del 1813 fu nominato reggente provvisorio di matematiche nel collegio di Firenze. I suoi interessi però non erano limitati unicamente allo studio del cielo; mancando infatti in Toscana una cartografia matematicamente rigorosa del territorio regionale, l’Inghirami decise di operare per porvi rimedio e negli anni tra il 1813 e il 1817 intraprese una vasta campagna di rilievi e di misurazioni di precisione che lo condussero (col metodo della triangolazione topografica) a determinare una base geodetica fra Pisa e Livorno di 8749 m. di lunghezza, rendendo così possibile il collegamento con la già esistente triangolazione lombarda. A questo periodo di febbrile attività scientifica appartiene lo studio Della longitudine e latitudine geografica delle città di Volterra, S. Miniato e Fiesole (Firenze, nella stamperia di S. Giuseppe Calasanzio, 1817) in cui riportò i risultati dei rilievi che dovevano servire di appoggio alle successive triangolazioni topografiche e che fu quindi seguito dagli analoghi scritti Della longitudine e latitudine delle città di Pistoia e Prato e Di una base trigonometrica misurata in Toscana nel 1817. Tutta la messe di dati da lui raccolta in questi anni confluì poi (dopo le opportune e prolungate elaborazioni trigonometriche e topografiche) nella grande Carta geometrica del granducato di Toscana alla scala 1:200.000 che fu pubblicata nel 1830 su disegno di Pompilio Tanzini. L’opera, che fu incisa in rame in quattro fogli e che fu completata da piante parziali di città alla scala 1:35.000 e da una tabella relativa a 216 quote altimetriche, dette un impulso decisivo allo studio della geografia in Toscana rappresentando inoltre una base indispensabile per la composizione del nuovo catasto regionale oltre che uno strumento imprescindibile per ogni successiva cartografia locale nonché per ogni intervento operativo o amministrativo sul territorio toscano. Autentico innovatore degli studi geodetici e geografici in Toscana, l’Inghirami aprì dunque la strada alle opere dello Zuccagni Orlandini e del Repetti per i quali rappresentò infatti un fondamentale punto di riferimento. Contemporaneamente a questi studi di carattere applicativo, continuò nella sua opera di docente formando numerosi allievi nella matematica e nell’astronomia: tra questi spicca soprattutto il padre scolopio Giovanni Antonelli che nel 1851 gli succedette nella direzione dell’Osservatorio Ximeniano e che divenne il suo maggior biografo. Invitato dal Bessel (uno dei maggiori geodeti dell’epoca, noto per la magistrale triangolazione della Prussia orientale), per conto dell’Accademia delle Scienze di Berlino, a collaborare alla compilazione dell’Atlante della regione celeste eclittica, fino alla decima grandezza stellare della zona compresa tra +15° e –15° di declinazione, l’Inghirami in meno di due anni presentò inciso e stampato il catalogo contenente la posizione di 3750 stelle di cui 1716 di nuova determinazione riscuotendo l’incondizionato plauso dei colleghi astronomi. Parallelamente a questa fertile attività scientifica egli ricoprì anche cariche importanti nel suo ordine; fu infatti superiore provinciale e poi Vicario Generale delle Scuole Pie. Egli tuttavia non trascurò mai l’attività didattica che anzi integrò e arricchì con la pubblicazione di molti libri di testo tra cui: Elementi di matematica, Tavole logaritmiche, Trattato di sfera armillare oltre a vari testi di geografia. Circondato da una vastissima fama, fu iscritto a ben 18 accademie nazionali ed internazionali e fu insignito di numerosissime ed alte onorificenze quali Commendatore della Croce di Ferro, Senatore del Granducato ecc. La continua applicazione allo studio, tuttavia, lo condusse sin dal 1839 quasi alla completa cecità. Si affidò pertanto al Prof. Luigi Malagodi che lo operò alle cataratte in casa del Conte Torello Torelli in Fano: l’operazione, parzialmente riuscita, non impedì purtroppo una fortissima riduzione della sua capacità visiva, cosicché nel 1848 fu costretto a lasciare ogni incarico. Si spense a Firenze il 15 agosto 1851. A perenne ricordo della sua rilevante opera di scienziato, il suo nome è stato assegnato ad un ampio cratere situato nell’area sud-orientale dell’emisfero visibile della Luna (coordinate approssimative: Lat.47°S, Long.291°)
Michelangelo INGHIRAMI (1854-1937)
Figura di primo piano della vita civile e politica volterrana a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento. Dirigente delle principali istituzioni cittadine fu sindaco di Volterra (1907-1908) e presidente dei due maggiori enti (Congregazione di carità e Cassa di Risparmio). Esponente della parte liberale prima dell’avvento del fascismo cercò di far sentire la sua voce autorevole nel caso di Luigi Scabia (1934) che riuscì a proteggere per qualche tempo dai rigori del regime.
Lodovico INGHIRAMI (1927-1995)
Nato a Volterra il 12 novembre 1927 da Gino del cav. Pier Nello Inghirami e da Dina Campani, dopo aver conseguito la laurea in medicina svolse dapprima l’incarico di neurologo presso la clinica per malattie mentali dell’ospedale di Torino. Nominato quindi nel 1963 assistente ordinario presso la cattedra di malattie nervose dell’Università di Torino per i suoi meriti scientifici, fu poi per un decennio primario neurologo presso l’ospedale di Asti finché nel 1977 rientrò finalmente in Toscana ove fino al momento della pensione (1993) svolse l’incarico di primario neurologo presso gli Spedali Riuniti di Livorno. Studioso appassionato di cose volterrane e scrupoloso indagatore del ricchissimo archivio familiare, dal momento suo ritorno in Toscana fino alla morte si dedicò con grande lena a tutta una serie di studi umanistici di argomento locale che affidò dapprima al mensile “Volterra” , quindi al settimanale “Volterra 7” e infine alla prestigiosa “Rassegna Volterrana”, organo dell’Accademia dei Sepolti di cui fu Socio. Rotariano e membro dell’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, fu inoltre membro della Misericordia, socio e consigliere della Fondazione della Cassa di Risparmio di Volterra e presidente dell’Accademia dei Riuniti (che sotto la sua guida trasse l’impulso di riaprire il Teatro “Persio FIacco”), caratterizzando così l’ultimo periodo della sua vita per “la ricerca meticolosa delle glorie passate, la divulgazione delle più antiche tradizioni legate alla sua famiglia e la partecipazione alle più belle iniziative culturali” (Porretti). Minato da una lunga malattia, si spense a Torino il 20 marzo 1995.
Lino Marcello INGHIRAMI FEI (1766-1841)
Nato a Volterra il 20 settembre 1766 dal cav. Niccolò del cav. Curzio Ottaviano Inghirami e da Lidia del marchese Marcello Venuti di Cortona, ebbe numerosi fratelli tra i quali si distinsero in particolar modo Giovanni (astronomo e geodeta) e Francesco (archeologo). Compì i primi studi nel collegio dei padri scolopi in S. Michele e grazie alla sua indole fu adottato dal cav. Giuseppe Fei, marito di sua zia Francesca Inghirami, che nel 1773 ottenne il suo inserimento nei ranghi dei cavalieri di S. Stefano col grado di paggio di S.A.R. Compiuto tale incarico a Firenze, l’Inghirami tornò a Volterra stabilendosi presso l’abitazione del padre adottivo che nel 1787 lo lasciò erede di un ricco patrimonio (circa 60.000 scudi); per tale motivo l’Inghirami decise di perpetuare da allora in poi la memoria del suo benefattore unendo per sempre al proprio cognome originario quello della casata Fei. Desideroso di giovare con le notevoli ricchezze in suo possesso allo sviluppo della sua città, nel 1791 aprì nei locali del soppresso monastero di S. Dalmazio uno studio per la lavorazione degli alabastri con l’intento di risollevare un’industria locale che allora versava in condizioni di assoluta decadenza. A tale scopo l’Inghirami Fei invitò alcuni tra i migliori artisti del suo tempo (Cornelio e Desmarais dalla Francia, vari direttori di Accademie d’arte ecc.) affinché prestassero la loro opera come istruttori di disegno, di ornato e di scultura nel suo laboratorio e il successo della sua iniziativa fu tale che durante il periodo della sua attività (17911799) la “fabbrica” Inghirami fornì lavoro ed istruzione professionale a circa cento artigiani promuovendo inoltre un’ampia diffusione commerciale dell’alabastro lavorato con l’apertura di magazzini per la vendita a Firenze, Livorno, Roma, Napoli, Venezia, Trieste e Vienna. L’occupazione francese del 1799 segnò però la fine del suo felice progetto. Ostile ad ogni idea francese ed ansioso di una pronta restaurazione granducale, si adoperò attivamente per organizzare la difesa della città dagli invasori d’oltralpe: saputo che gli aretini erano insorti e resistevano strenuamente ai francesi, si recò pertanto ad Arezzo per chiedere aiuto. Ottenuti 35 uomini a cavallo e giovandosi del concorso di numerosi volontari riuscì così a mettere insieme un piccolo esercito di circa 400 uomini col quale prese possesso di Volterra in nome di Ferdinando III proclamando la liberazione della città libera dal giogo francese, dichiarando decaduto il magistrato municipale di estrazione giacobina e nominando un governo provvisorio. Contemporaneamente incoraggiò la ripresa delle armi da parte del popolo, indisse la leva tra i giovani e formò rapidamente reparti di fanteria e di cavalleria da opporre al nemico. Trasformata dunque la città in una piazzaforte, l’Inghirami, poiché i francesi si erano ritirati precipitosamente a Firenze, iniziò a dispiegare le sue forze sul litorale tirrenico muovendo dapprima su Cecina (a cui impose una resa senza condizioni) per poi passare alla conquista del forte di Bibbona (di cui ottenne astutamente la capitolazione). Dopo questi primi successi affidò il comando delle operazioni sul litorale al fratello Curzio e rientrò trionfante a Volterra alla testa di una lunga fila di prigionieri francesi, ben consapevole che con tale azione avrebbe consolidato ulteriormente l’avvenuta restaurazione volterrana. Ripreso quindi il comando delle operazioni militari sulla costa, puntò su Livorno che conquistò facilmente e che occupò per cinque giorni, fino all’arrivo di un contingente austriaco, organizzando nel frattempo con successo continui attacchi navali contro il presidio e le navi francesi dell’Elba. Rientrò quindi a Volterra carico di gloria, ma il suo trionfo durò ben poco: dopo la battaglia di Marengo (14 giugno 1800) Napoleone riprese possesso dell’Italia e, riconquistata Firenze il 15 ottobre 1800, dette vita l’anno successivo al Regno d’Etruria. Con la nuova occupazione francese i vecchi oppositori furono costretti a cercare scampo altrove ed anche l’Inghirami fu tra questi. Ritiratosi a vita privata e rovinato sul piano finanziario preferì abbandonare l’Italia e si trasferì con la famiglia ad Amburgo dove risiedette per alcuni anni: qui la moglie Maria Giuseppa di Sebastiano Riccobaldi Del Bava dette alla luce altri quattro figli (tra cui Niccolò, futuro console d’Austria a Livorno). Dopo la caduta di Napoleone l’Inghirami rientrò in Italia e si stabilì a Firenze, senza però recuperare la perduta fortuna. Si spense a Firenze il 29 settembre 1841 e fu sepolto nella Chiesa di S. Marco.
Niccolò INGHIRAMI FEI (1804-1869)
Console d’Austria a Livorno. Nato ad Amburgo nel 1804 dal cav. Lino Marcello Inghirami Fei e da Maria Giuseppa di Sebastiano Benedetto Riccobaldi Del Bava, fu il secondogenito di sette fratelli. I suoi genitori si trovavano ad Amburgo fin dal 1799 poiché suo padre, particolarmente distintosi nel raccogliticcio esercito di sanfedisti che, mentre Napoleone si trovava in Egitto, era riuscito a rioccupare la Toscana cacciandone i francesi, aveva preferito in seguito mettersi al sicuro con la famiglia abbandonando l’Italia. Marcello Inghirami, infatti, in qualità di generale riconquistò Volterra, mentre suo fratello Curzio, che fungeva da suo luogotenente, entrò col suo esercito in Livorno abbandonata dai francesi. Furono però successi assai effimeri: dopo il ritorno di Napoleone e la vittoria di Marengo, i francesi s’impadronirono nuovamente dell’Italia obbligando pertanto gli oppositori che si erano maggiormente esposti a cercare scampo con la fuga. Marcello Inghirami si trasferì così in Germania e mentre il suo figlio primogenito Sebastiano si stabilì definitivamente ad Amburgo, ove ebbe numerosa prole, Niccolò (che rimase sempre celibe) preferì ritornare in Italia e si stabilì a Livorno dove già viveva sua sorella Enrichetta sposata al console del regno di Hannover Carlo Grabau. Qui Niccolò lavorò per l’amministrazione lorenese che trovò in lui un funzionano abile e fidato ed alla quale egli rimase sempre fedele anche durante la cruenta occupazione austriaca di Livorno che seguì al ritorno in Toscana di Leopoldo II. Per la grande stima che si era universalmente guadagnato, dopo la caduta del governo lorenese e al sopravvento del Regno d’Italia, poté esercitare, proprio a Livorno, la carica di console dell’Impero austro-ungarico. Accadde così che nel maggio del 1869 fu incaricato di accompagnare al porto della città il generale Folliot de Crenneville, di origine francese, che, passato al servizio dell’Austria, era stato nominato nel 1849 governatore di Livorno e che durante il periodo dello stato d’assedio a cui allora fu sottoposta la città si era distinto per la ferocia e l’implacabile tracotanza con cui aveva esercitato le sue funzioni repressive. La notizia della sua presenza in città si sparse subito alimentando propositi di vendetta. La sera del 24 maggio 1869 il conte de Crenneville e l’Inghirami raggiunsero il porto dove l’ex governatore doveva imbarcarsi sul piroscafo Sardegna ma giunti dinanzi al monumento dei” Quattro Mori” alcuni uomini che li avevano seguiti si fecero avanti ed un colpo di pugnale trafisse il volto del generale. L’Inghirami si piegò per soccorrere il ferito, ma nella concitazione di quei momenti fu colpito mortalmente da una nuova pugnalata diretta al conte; egli cadde pertanto esanime sul corpo del de Crenneville che invece se la cavò con poche ferite lievi. La sera stessa la sua salma fu trasportata con gran seguito popolare al cimitero della Misericordia dove ebbe una modesta sepoltura arricchita in seguito, su ordine dell’imperatore Francesco Giuseppe, da una lapide sormontata da una croce di marmo. Il processo che seguì all’attentato si concluse con l’assoluzione degli imputati: l’uccisione di Niccolò Inghirami restò dunque impunita ed il vero movente che fu all’origine questo fatto di sangue, anche a causa di forti pressioni politiche, non fu mai chiarito.